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Politiche attive del lavoro, il problema dell’Italia

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Tocca alle politiche del lavoro garantire forme di tutela ai lavoratori più deboli e più colpiti dalla crisi seguita alla pandemia. Soprattutto è urgente rafforzare le politiche attive. Ma troppe incertezze frenano gli organismi chiamati a gestirle.

Tre approcci per difendere i lavoratori

La pandemia ha lasciato, sotto il profilo degli interventi occupazionali, un generalizzato ricorso a politiche del lavoro di tipo “protettivo”, orientate – come era lecito aspettarsi – alla difesa dei posti di lavoro minacciati dalla sospensione delle attività. La tabella 1 ricostruisce i primi interventi varati durante il periodo di lockdown da alcuni dei paesi più colpiti dall’emergenza: Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti.

Dal quadro che emerge è possibile individuare tre approcci prevalenti. Il primo, corrispondente ai paesi europei, vede il varo di misure volte alla protezione dell’occupazione attraverso l’uso di schemi di short-time work (Stw) e integrazioni salariali in via straordinaria. Il secondo, relativo agli Usa, è meno orientato alla tutela dei posti di lavoro (tant’è vero che sono 36 milioni gli americani rimasti senza lavoro nei primi due mesi di pandemia), con politiche passive che hanno esteso, in termini di copertura e generosità, i sussidi di disoccupazione ordinari. Ai lavoratori colpiti dalla crisi viene sostanzialmente garantito il trattamento previsto in casi di malattia, allentando i criteri relativi alla prova dei mezzi e gli obblighi in termini di attivazione alla ricerca di un impiego. Il Regno Unito ha optato per un terzo approccio che si compone sia della misura nota come Job Retention Scheme (conosciuta anche come furlough leave), approssimabile alle integrazioni salariali previste dagli schemi di Stw dei paesi dell’Europa continentale e mediterranea, sia dell’estensione di sussidi di disoccupazione ordinari, allentandone i criteri.

Nei diversi paesi, le misure replicano quelle già sperimentate durante la crisi del 2008,

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